Prima di tutto è necessario stabilire che cos’è lo sport. Se per sport s’intende l’esercizio fisico praticato per diletto, con fini igienico-sanitari, allora è più che legittimo. Se per sport, invece, s’intende l’entusiasmo fanatico per un certo tipo di competizione, per una squadra o per un atleta, allora è un altro discorso!
Lo sportivo vero è un atleta ingaggiato in una disciplina sportiva; nel senso più profondo del termine non è un professionista, ma un cultore di una specialità, animato da una grande passione per lo sport. Sono sportivi veri, ad esempio, quanti partecipano alle olimpiadi, quando non ne fanno una questione di professione, e perciò di lucro, ma di puro e semplice amore per la competizione sportiva.

SPORTIVI O TIFOSI?
Perciò, non possono considerarsi “sportivi” le miriadi di “tifosi” che fanno della squadra del cuore una ragione di vita e trasformano il “campionato” in una religione e lo stadio in una cattedrale.
Esiste una gran differenza tra l’atleta ed il “tifoso”: il primo è uno sportivo, il secondo è il sostenitore di una squadra o di un giocatore. Il tifoso è profondamente coinvolto a livello psicologico ed emotivo, tanto da identificarsi con il suo beniamino, scaricando così le ambizioni non realizzate. Questi “fan”, abbreviazione dell’inglese “fanatic”, cioè “fanatico”, talvolta manifestano addirittura forme patologiche di entusiasmo, lasciandosi andare ad atti di violenza inconcepibili in una società civile.
Queste forme di coinvolgimento sportivo non possono essere accettate come legittime, né dal punto di vista cristiano né dal punto di vista umano.
Poniamoci obiettivamente una domanda: “L’agonismo sportivo può coesistere con lo Spirito di Cristo?”.
Chiunque conosce o ha partecipato come spettatore a competizioni sportive non potrà negare che anche tra i più amabili sostenitori il desiderio di vincere acceca gli occhi, tanto che si arriva a compiere qualsiasi atto, anche violento, pur di raggiungere il proprio scopo. Nel corso della competizione si manifestano fra il pubblico ed i giocatori sentimenti aggressivi volti ad ottenere la vittoria.

AGONISMO E CRISTIANESIMO
Un notissimo peso massimo americano, dichiaratamente credente, parlando del suo avversario dopo la vittoria affermava: “Potevo notare che lo sguardo del mio avversario mentre cadeva era diventato vitreo, sapevo che se si fosse rialzato non sarebbe stato per il suo bene, perciò ho continuato a colpirlo ed il Signore ha fatto il resto”. Sono dichiarazioni agghiaccianti che rivelano quanto questi sentimenti siano lontani dallo Spirito di Cristo.
Un noto psicologo sportivo ha scritto: “Quasi ogni vero, grande atleta che abbiamo intervistato durante gli ultimi quattro anni … ha consistentemente sottolineato che per poter essere un vincitore bisogna possedere the killer instinct (l’istinto assassino)’’.
Un campione di tennis, divenuto famoso non soltanto per le sue vittorie, ma anche perché riusciva a distrarre i propri avversari con frasi sconce e gesti volgari, ha affermato: “Forse i miei metodi non sono accetti ad alcuni, ma devo fare questo per sopravvivere. Non vado sul campo di tennis per amore verso il mio avversario, vado per annientarlo”.
Questa “animosità competitiva” è assolutamente indispensabile, affermava un noto allenatore, e “deve iniziare durante la settimana precedente alla gara. Per giocare devi avere il fuoco dentro di te e nulla deve spegnerlo, deve essere come l’odio”.
Un altro medico sportivo, in uno studio comparato tra atleti vincitori e perdenti, ha scoperto che i primi sono quelli che considerano gli antagonisti come “nemici temporanei”, che bisogna sconfiggere, mentre i perdenti sono coloro che invece di manifestare animosità verso gli avversari, fanno di tutto per mantenere un’atmosfera di amicizia.
Queste dichiarazioni forse possono sembrare inutili ed ovvie, ma sono la testimonianza di “addetti ai lavori”, che confermano quanto tutto il mondo delle competizioni sportive sia lontano ed in contrasto con il vero Spirito di Cristo.
Le competizioni sportive sono un incoraggiamento all’auto-sufficienza. Qualsiasi atleta vanterà il proprio impegno, la propria autodisciplina, il proprio sforzo, in ultima analisi crederà che da solo sia riuscito a vincere per la propria capacità e in virtù dei propri sforzi. Dal punto di vista dell’etica cristiana, ogni atleta, proprio perché si è fatto da solo, è il simbolo dell’auto-sufficienza, della”teologia del merito”.

I TESTI BIBLICI “SPORTIVI”
Qualcuno obietterà: “Ma allora perché l’apostolo Paolo si sofferma ampiamente su esempi di carattere sportivo e perfino olimpico?”. Occorre a questo proposito chiarire un equivoco. La Scrittura non incoraggia la competitività, né incoraggia i cristiani ad essere ingaggiati nel mondo sportivo. Attraverso i secoli in tanti sono andati a cercare versetti e testi biblici che potessero suffragare le loro idee preconcette e così fornire una giustificazione biblica alle loro opinioni e alle loro “ispirazioni”. La Parola di Dio deve essere letta senza pregiudizi di sorta, lasciamo che essa da sola dia a ciascuno la lezione spirituale a morale necessaria.
Leggiamo ora i testi citati:
“… l’atleta è temperato in ogni cosa; …” (I Corinzi 9:25);
“Parimenti se uno lotta come atleta non è coronato, se non ha lottato secondo le leggi” (II Timoteo 2:5);
“Non sapete voi che coloro i quali corrono nello stadio, corrono ben tutti, ma uno solo ottiene il premio? Correte in modo da riportarlo. Chiunque fa l’atleta è temperato in ogni cosa; e quelli lo fanno per ricevere una corona corruttibile; ma noi, una incorruttibile. Io quindi corro ma non in modo incerto, lotto al pugilato, ma non come chi batte l’aria; …” (I Corinzi 9:24-26);
“… corriamo con perseveranza la gara che ci è proposta” (Ebrei 12:1; Vers. N.R.).
Quelli riportati sono i testi più indicativi della Scrittura che riguardano lo sport. All’epoca, le competizioni sportive non erano certamente una professione, ma una pura attività fisica come quella svolta nelle olimpiadi greche. Oltre a tutto ciò, l’apostolo, ispirato dallo Spirito Santo, utilizza gli esempi della vita quotidiana per trarne insegnamenti proficui per i credenti e non con lo scopo di legittimare varie discipline sportive come la corsa, il pugilato, la lotta libera, ecc. L’impegno e la purezza di intenti di questi atleti che si preparano per ottenere soltanto una corona, questo era all’epoca il premio dei vincitori, devono stimolare il credente a considerare l’impegno e la diligenza che si devono profondere per vivere un’esistenza equilibrata e sobria, in vista del premio eterno che il Signore dona a tutti coloro che giungono al traguardo.

E GLI ATLETI CRISTIANI?
Come mai, dirà qualcuno, abbiamo perfino atleti “pentecostali”?
E’stato detto tante volte che il termine “pentecostale”, inizialmente usato soltanto in senso dispregiativo, ora è ampiamente utilizzato per identificare una gamma infinita di “esperienze” cristiane, che vanno dagli evangelici pentecostali fondati su “tutto l’Evangelo”, a gruppi di pseudo-cristiani, i quali affermano di aver ricevuto lo “Spirito”, ma che non fondano la propria fede ed esperienza unicamente sulla Bibbia, la Parola di Dio infallibile ed ispirata.
In occasione dei mondiali di calcio in Messico, i mass-media hanno dato ampio risalto a due “pentecostali” tra i giocatori: Cha Bum, della nazionale della Corea del Sud, ed una riserva della nazionale messicana, che tra l’altro ha dichiarato di voler diventare “pastore”.
Queste notizie sono “buona novella” per i numerosi cristiani più o meno coinvolti nel mondo del calcio, ma lasciano perplessa un’altra parte di credenti, i quali reputano totalmente estranea allo Spirito di Cristo qualunque manifestazione agonistica, oggi divenuta tra l’altro una specie di miniera d’oro per il mondo delle scommesse che ruota attorno a questo ambiente.
Quindi, bando ai facili entusiasmi di coloro che si compiacciono dell’esistenza di calciatori pentecostali. Costoro hanno pensato di legittimare così la propria tendenza al “tifo”.
Nessun cristiano sarebbe disposto ad applaudire un qualsiasi atto di violenza, o a sorridere ad una parola volgare o ad un gesto osceno, o ad acclamare qualcuno che pieno d’ira riesce ad atterrare un avversario. Tutte queste cose avvengono nelle “cattedrali dello sport” e gli spettatori se ne rallegrano, ne parlano, si accalorano e continuano a discuterne per ore se non per giorni interi.
Tutto questo è in contraddizione con lo scopo iniziale e benefico del vero sport. Oggi invece è diventato una vera e propria fede; le partite e le gare si sono trasformate in un atto liturgico che riesce a coinvolgere profondamente. Alcuni atleti affermano di gareggiare “alla gloria di Dio”. Qualcuno ha addirittura dipinto delle croci sulle proprie scarpette sportive per “testimoniare” della sua fede. molto difficile non nutrire sospetti, non tanto riguardo alla semplicità degli atleti cristiani, i quali non sono stati illuminati sugli scopi stessi delle gare, ma degli organizzatori, i quali, più di tutti gli altri, realizzano il beneficio della sacralizzazione dello sport. Alcuni, per rispondere a questo genere di critica, affermano perfino che molti campioni impegnati nelle gare testimoniano della loro fede in Cristo, e quindi anche le gare sportive divengono un mezzo di “evangelizzazione”.

LA SOLUZIONE BIBLICA
Non lasciamoci ingannare dalla facile seduzione degli sport! Ricordiamo invece che “… l’esercizio corporale è utile a poca cosa, mentre la pietà è utile ad ogni cosa, …” (I Timoteo 4:8).
Un’altra versione traduce: “L’esercizio fisico è di qualche valore, utile per poco, ma l’esercizio spirituale è utile e di valore per tutto ed in ogni cosa”. Una parafrasi moderna dello stesso testo afferma: “Allenati continuamente ad amare Dio. Allenare il corpo serve a poco; amare Dio, invece, serve a tutto”. Per i cristiani, il testo succitato sembra delimitare i confini tra ciò che è legittimo e ciò che invece non lo è. Non si nega l’importanza dell’esercizio fisico e quindi dello sport in quanto tale, anche se essa è limitata soltanto alla vita terrena, ma l’esercizio fisico non deve essere mai a detrimento di quello spirituale, che ha valore eterno, “per tutto e per ogni cosa”.
Interroghiamoci obiettivamente se il nostro impegno “sportivo” per qualche squadra o qualche atleta ci trasforma in “fan”. Questo è pericoloso. Lasciamo che ci critichino per essere “fan” di Gesù e della Sua immensa missione di salvezza! Domandiamoci ancora se “le regole del gioco” sportivo non vengono ad annullare l’etica cristiana, che deve sempre farci identificare come discepoli di Gesù, perché nutriamo il Suo sentimento. Domandiamoci inoltre se la stessa natura competitiva dello sport, l’applauso ed il riconoscimento dato ai vincitori non ci facciano dimenticare il principio insostituibile della grazia ed il detto di Gesù: “… molti primi saranno ultimi e molti ultimi, primi” (Marco 10:31).
Infine, chiediamoci quale posto occupa l’interesse sportivo nella nostra vita. Se preferiamo la partita al culto, alla preghiera, alla meditazione della Parola di Dio, siamo in grave pericolo per l’anima nostra. Alla stessa stregua di chi pone i propri affetti ed i propri interessi prima di quelli di Cristo e della Sua causa, stiamo diventando “idolatri” e questo è il più grave pericolo per la nostra esperienza di cristiani che desiderano ubbidire al Signore, secondo l’insegnamento dell’Evangelo.