Nel Nuovo Testamento la parola perdono, oltre ad avere il significato di “rinunciare generosamente a vendicarsi vincendo il risentimento per un danno o un’offesa subìta”, significa “lasciare andare, “mettere in libertà”, “mandare via”. Quest’ultimo significato dà esattamente l’idea di ciò che avviene, invece, nell’animo di chi non riesce a perdonare. Infatti, il risentimento nell’animo di chi si ritiene offeso continua a creare un profondo stato di disagio, che è il risultato del conflitto tra la coscienza, che vorrebbe essere liberata da questo peso, ed il senso dell’amor proprio che impedisce di compiere il primo passo verso la riconciliazione.
Molti, e purtroppo anche credenti, soffrono fisicamente e mentalmente per questa specie di legame che imprigiona l’animo umano e crea grande travaglio interiore. Dio ci ha dotati della coscienza morale, cioè di una facoltà che giudica le azioni secondo il senso morale di giustizia.
Quando la coscienza è travagliata per il rifiuto a volersi liberare da un peso che attanaglia la mente, sorge allora il timore, la preoccupazione e la mancanza di serenità. Il re Davide scriveva: “Mentr’io mi son taciuto le mie ossa si son consumate pel ruggire ch’io facevo tutto il giorno” (Salmo 32:3).

LA SOFFERENZA MENTALE
Molti credenti soffrono mentalmente e talvolta anche fisicamente per la loro incapacità di compiere il primo passo verso la riconciliazione. Altri, pur non manifestando esteriormente il risentimento, continuano a non perdonare la persona che li ha offesi e, all’amarezza interiore, aggiungono l’ipocrisia; contemporaneamente si sentono accusati dalla loro coscienza, perché non sono capaci di perdonare. Il vero perdono non può scaturire con naturalezza dal cuore umano, deve essere il risultato dell’intervento dello Spirito Santo, che afferma: “Siate … misericordiosi, perdonandovi a vicenda, come anche Dio vi ha perdonati in Cristo” (Efesini 4:32).
E’ questo il primo passo verso il perdono, senza il quale nessuno di noi ha la capacità di “liberare” la propria coscienza e di “mettere in libertà” chi ci ha offeso. Infatti, la sofferenza mentale è duplice: mentre l’offeso soffre per l’incapacità di perdonare, colui che ha arrecato l’offesa è relegato in uno stato di isolamento; non esistendo alcun rapporto tra i due, il malessere è reciproco. Spesso dietro il gelido sorriso di circostanza, c’è un cuore che soffre, che non riesce a perdonare e che spera con il tempo di riallacciare un rapporto amichevole e fraterno con l’altra parte.

LA NECESSITÀ DI RIFLETTERE
Il primo passo da fare è quello di riflettere sulla logica della Scrittura, che ci richiama a perdonare “come Dio ci ha perdonati in Cristo”. Se consideriamo che “… in lui noi abbiamo la redenzione mediante il suo sangue, la remissione de’ peccati, secondo le ricchezze della sua grazia; della quale Egli è stato abbondante verso noi, …” (Efesini 1:7, 8), non possiamo far altro che perdonare chi ci ha offesi.
Questo è uno dei tanti versetti biblici che ci richiamano alla realtà; ecco ad esempio altri due molto significativi: Cristo ci “… ha vivificati con lui, avendoci perdonato tutti i falli” (Colossesi 2:13); “Vestitevi dunque, come eletti di Dio, … sopportandovi gli uni gli altri e perdonandovi a vicenda, se uno ha di che dolersi d’un altro. Come il Signore vi ha per-donati, così fate anche voi” (Colossesi 3:12, 13).

LA NECESSITÀ DI UBBIDIRE
Convinti che il Signore, per la Sua Parola, ci richiama alla grande realtà del Suo amore e della Sua misericordia, dobbiamo disporci ad ubbidire; infatti, l’ubbidienza è l’attitudine di sottostare agli ordini di qualcuno più saggio ed autorevole di noi.
Il cristiano manifesta l’ubbidienza senza opporre alcuna obiezione alla Parola di Dio. E’ necessario mettere da parte i nostri punti di vista ed il dubbio sulla nostra incapacità di compiere quanto ci è richiesto. “Non già che siam di per noi stessi capaci di pensare alcun che, come venendo da noi; ma la nostra capacità viene da Dio,…” (II Corinzi 3:5, 6).
Se desideriamo ubbidire, scopriremo che Dio è Colui che opera “… il volere e l’operare, per la sua benevolenza” (Filippesi 2:13); questo vuol dire che se ci disponiamo ad ubbidire ecco che agisce in noi la fede e Dio, per lo Spirito Suo, ci darà la vittoria su noi stessi e sui nostri sentimenti sbagliati.

LA FEDE
Il terzo passo è quello della fede, che cresce nella comunione con Dio. Nella Sacra Scrittura troviamo un episodio significativo, quello di Giacobbe che vuole riconciliarsi con Esaù, suo fratello, ma nel fare il primo passo ha paura. V’è in lui un senso di colpa che l’ha tenuto prigioniero per molti anni. Tutti i suoi “piani strategici” ed i suoi “doni diplomatici” non lo hanno tranquillizzato. Ha paura di dichiarare il suo peccato ed allora cerca rifugio “tra le braccia di Dio” a “Mahanaim”, un nome che significa “due campi” (cfr. Genesi 32:2). Difatti qui Giacobbe passa dal campo dei propri dubbi e del proprio timore, a quello di Dio e della Sua potenza. Questa risposta lo spinge all’incontro di Peniel, dove è benedetto da Dio e riesce, così, ad affidarsi totalmente alle Sue promesse.
Qualcuno dirà, ma Giacobbe aveva offeso suo fratello. La domanda del lettore è invece quella di un offeso che non riesce a perdonare, e l’esempio di Giacobbe perciò non sembra pertinente.
Quando non c’è possibilità di riconciliazione, sia l’offeso che l’offensore rimangono imprigionati da un senso di colpa. Infatti, Gesù a questo riguardo afferma: “Se dunque tu stai per offrire la tua offerta sull’altare, e quivi ti ricordi che il tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia quivi la tua offerta dinanzi all’altare, e va’ prima a riconciliarti col tuo fratello; e poi vieni ad offrir la tua offerta” (Matteo 5:23, 24).
Per Giacobbe, “Mahanaim” fu la preparazione per l’incontro di Peniel. Non vi può essere liberazione senza che prima vi sia fede nel cercare la soluzione al cospetto di Dio.

LA VITTORIA
Come per Giacobbe fu facile riconciliarsi con suo fratello dopo aver incontrato il Signore, così sarà semplice per qualunque cristiano perdonare ed essere perdonato.”Giacobbe alzò gli occhi, guardò, ed ecco Esaù che veniva,… Ed Esaù gli corse incontro, l’abbracciò, gli si gettò al collo, e Io baciò: e piansero” (Genesi 33:1, 4).
Quando nel cuore mette radici un sentimento di “odio” e di reazione, non esiste più offeso od offensore, ma occorre che otteniamo la vittoria su noi stessi mediante la fede, permettendo che lo Spirito Santo disponga di piena libertà di azione. Allora tutto sarà veramente facile e, inaspettatamente, l’incontro di riconciliazione avverrà “a mezza strada”, come nel caso di Giacobbe ed Esaù, senza bisogno di spiegazioni, né cercando di scoprire chi ha ragione e chi ha torto.
L’atmosfera saturata dall’astio e dall’acredine è scomparsa, i legami della prigionia sono spezzati. E’il tempo degli abbracci e del pianto di gioia per la ritrovata libertà, perché perdono vuol dire “lasciare andare” e “mettere in libertà”.